Renzi: "Per eleggere il Presidente della Repubblica serve la politica, non gli slogan"

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Intervista di Claudio Bozza, "Corriere della Sera", 6 gennaio 2022.  

 

Senatore Matteo Renzi, l'Italia è travolta dalla quarta ondata. Crede che la politica sia in grado di dare un segnale forte ai cittadini ed eleggere il nuovo presidente della Repubblica al primo scrutinio?

«I cittadini si aspettano di vaccinarsi velocemente e di convivere con il virus come siamo destinati a fare. Il quorum al primo scrutinio è arduo da raggiungere. L'elezione del capo dello Stato richiede intelligenza politica: Bersani nel 2013 bruciò Marini insistendo per riuscirci alla prima. Che sia eletto lunedì 24 O giovedì 27 cambia poco: deve starci sette anni, cosa vuole che siano tre giorni in più?».

 

Maria Elena Boschi sostiene che chi spinge Draghi al Colle vuole le elezioni: lo dite perché non volete Draghi o perché temete le elezioni?

«Ha detto la verità. Meloni ha bisogno delle elezioni perché ha iniziato il calo nei sondaggi. La crisi di Conte è conclamata e Di Maio aspetta solo le Amministrative di primavera per fargli le scarpe. Quanto a Letta, se non si vota deve fare il congresso e vincere le primarie, esercizio nel quale non ha grande esperienza. Loro vogliono il voto anticipato per esigenze personali. Io penso che invece le elezioni vadano fatte a fine pandemia e con il Pnrr impostato, nel 2023. Dopo di che Draghi sarebbe un perfetto presidente della Repubblica come è stato un perfetto premier. Se vogliamo mandarlo al Colle, tuttavia, serve la politica. Perché l'arrivo di Draghi non è stata una sconfitta della politica ma un capolavoro della politica».

 

Da un anno rivendica come un mantra il merito per l'arrivo di Draghi. Perché ora ha queste titubanze?

«Nell'ultimo anno ogni giorno sono stato fiero di aver combattuto con gli amici di Italia viva per mandare a casa Conte e portare Draghi. Persino chi ci odia dovrebbe dirci grazie: abbiamo salvato l'Italia. Non sono dunque titubante su Draghi, ma faccio politica. Draghi è un punto di forza di questo Paese. Se vogliamo mantenerlo a Palazzo Chigi gli va data massima agibilità politica. Se vogliamo che stia al Colle va costruita una maggioranza presidenziale, ma anche una maggioranza politica per il governo del dopo. Per farlo serve una iniziativa politica non tweet a caso».

 

Lei guida 45 Grandi elettori del suo partito. Ma con i 30 di Coraggio Italia il potere contrattuale del vostro progetto centrista aumenterebbe. Insomma: che contropartita chiedete?

«Vediamo come evolverà il rapporto con i gruppi di Toti e Brugnaro. Diciamo che senza di noi è difficile fare un presidente della Repubblica. Ma senza di noi è proprio impossibile fare un nuovo governo. Siamo i garanti della prosecuzione della legislatura fino a scadenza naturale».

 

Un capo dello Stato di centrodestra per lei è un problema o no?

«No. La domanda però è teorica, perché mi sembra che i primi a non voler costruire consenso su un candidato di quest'area siano proprio i colleghi del centrodestra. Hanno i numeri ma non la strategia».

 

Da quanto non sente Berlusconi?

«Le confesso una cosa. Non lo vedo da quando abbiamo rotto su Sergio Mattarella. Era il gennaio 2015, esattamente sette anni fa. Mai più visto. Non lo sento da agosto».

 

Crede che abbia una chance?

«Lui ci crede, pare. Il resto del mondo ci crede molto meno».

 

I suoi rapporti con Letta sono di nuovo a zero. Però, sul Colle e non solo, ha sempre un filo rosso con Franceschini: non è che è tornato ai tempi di «Enrico stai sereno» e sogna di vedere premier il ministro dei Beni culturali (il suo «miglior nemico»)?

«Enrico ci ha chiesto una mano per il collegio di Siena e gliela abbiamo data. Italia viva allora è stata decisiva. Dal giorno dopo Letta ci ha espulsi dal centrosinistra addossandoci la responsabilità del suo fallimento sulla legge Zan. Ma forse doveva solo creare le condizioni per far rientrare D'Alema, adesso è tutto più chiaro. Se abbandona il rancore e prova a fare politica sa dove trovarci. Quanto a Dario, è un professionista serio e rispettato. Fatico a trovare uno più diverso da me, ma gli riconosco lucidità. Avrà ancora grandi responsabilità istituzionali ma non so dirle quali».

 

Eppure Letta è intervenuto per difenderla dall'attacco di D'Alema che aveva definito lei «malattia» del Pd...

«Non so se io sono la malattia del Pd come dice D'Alema. L'importante è che, se io sono il malato, non mi curi il dottor D'Alema con le sue ricette e con i suoi ventilatori cinesi mal funzionanti, ma ben pagati dal commissario Arcuri. Torniamo alla politica, guardi, che è meglio. Se i riformisti del Pd vogliono D'Alema e considerano un male ciò che abbiamo fatto su tasse, industria 4.0, lavoro, sociale, diritti -civili è un problema loro, non mio. In tutto il mondo la sinistra diventa riformista, solo da noi diventa dalemiana. D'Alema che rientra nel Pd spiega in un solo gesto perché ha un senso Italia Viva».

 

Lei flirta spesso con Salvini: la sera della manovra ci ha parlato a notte fonda in Senato, davanti a tutti, come a lanciare una sfida, specie al suo ex partito: il Pd. Eppure avete dna politico-culturali opposti: chi è che ha cambiato idea?

«Io e Salvini ci siamo sempre combattuti. Continueremo a farlo. Se oggi lui non ha i pieni poteri lo deve alla mia mossa del cavallo del 2019. Dunque combattiamo contro ma lealmente. E sulla vicenda del Colle negare un ruolo al capo del centrodestra, che ad oggi è Salvini, significa vivere fuori dal mondo».

 

Continua a dire che al centro c'è una prateria: ma dal punto di vista politologico le fasi di crisi spingono l'elettorato a polarizzarsi. Non teme di rimanere solo, in questa prateria?

«Più la destra diventa sovranista, più il Pd diventa dalemiano, più lo spazio centrale cresce. E come vede non le cito nemmeno i Cinque Stelle la cui dissoluzione é emblematica. Conte dice votiamo una donna e quelli rispondono candidando Mattarella che come noto si chiama Sergio, non Sergia. Peraltro lo stesso Mattarella su cui mi hanno attaccato nel 2015 e hanno chiesto l'impeachment nel 2018. I Cinque stelle sono fondati da un comico ma adesso fanno ridere tutti. Le loro capriole di queste ore meritano vagonate di popcorn. Conte non sposta neanche il voto dei parenti. O come direbbe lui, degli affetti stabili».

 

In tanti si domandano cosa farà da grande: il suo futuro, se verrà rieletto, sarà ancora in Parlamento o si dedicherà a tempo pieno all'attività privata di conferenziere e lobbista?

«Non sono un lobbista. Faccio conferenze, sono membro di advisory board, insegno in università straniere. Il tutto nel rispetto della legge. Le mie attività non mi hanno impedito di essere protagonista della vita parlamentare in questa legislatura in almeno due circostanze: dopo il Papeete per mandare a casa Salvini, lo scorso anno per mandare a casa Conte. Continuerò a fare quello che la legge mi permette di fare e lunedì inizio il mio nuovo corso alla Stanford University. Si preoccupino di chi ha preso tangenti sugli appalti Covid, non delle mie legittime attività internazionali».