Renzi: "Un solo rimpianto, non aver lasciato subito dopo il Referendum"

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Intervista di Tommaso Labate, "Sette - Corriere della Sera", 20 novembre 2020.

«Il 5 novembre scorso sono tornato a Palazzo Chigi. La prima volta dopo quattro anni. Saliti nell'appartamento, Conte mi fa "oh, ma tu qua ci lavoravi, vero?". C'era un ordine maniacale, quando ci stavo io era tutto un casino, carte ovunque. Ho visto che hanno fatto dei lavori, una cosa come si deve, con buon gusto. All'epoca mia c'era una specie di carta da parati giallognola, mezza opaca, mi metteva ansia ma non l'avevo mai cambiata. L'aveva messa Berlusconi a spese sue e a me non andava di toglierla a spese dei contribuenti. Comunque sia, nessuna emozione. Diamine, torni dopo tanto tempo in un posto in cui hai passato anni meravigliosi, pensavo mi colpisse. Invece nulla. La sera l'ho chiesto anche a mia moglie Agnese: "A Palazzo Chigi nulla, non ho provato nessun fremito, nessuna nostalgia. Secondo te, perché?"». In questo esatto momento di un'intervista durata qualche ora e spalmata su più giorni - quando racconta della prima volta che ha rimesso piede a Palazzo Chigi come leader di un piccolo partito della maggioranza giallorossa - Matteo Renzi sembra Pu Yi, l'ultimo imperatore cinese della dinastia Qing, per come si vede all'inizio del (quasi) omonimo film di Bernardo Bertolucci che ne racconta le gesta.

L'uomo dentro quelle mura che un tempo l'avevano visto monarca assoluto, o quasi. I ricordi belli hanno cancellato gli altri. «Come nella frase del diario di Hammarskjöld. "Al passato, grazie. Al futuro, sì». L'intervista inizia da dove, di solito, dovrebbe finire. E torna indietro.

Senatore Renzi, lei si sente di aver vinto o perso?
«Io sono un uomo fortunato. Ho fatto il presidente del Consiglio a trentanove anni, ho realizzato riforme che hanno portato un cambiamento nella società, nell'economia, nel lavoro, nei diritti civili, che forse saranno più apprezzate ora di quanto non lo siano state in passato. Ho mancato l'approvazione di altre riforme, penso a quella costituzionale poi affossata dal No al referendum, che oggi qualcuno rimpiange, soprattutto per la chiarezza che avrebbero portato nel conflitto ormai quotidiano tra governo centrale e regioni».

Rimpianti?
«Uno solo, forse. Non essermi levato di torno, e per sempre, subito dopo la sconfitta al referendum. Avevo tre offerte di lavoro dagli Usa, avevo già optato per una. Poi tutto lo stato maggiore del Pd mi convinse che la legislatura si sarebbe interrotta qualche mese dopo e che avremmo votato in primavera, con me alla guida di un partito che aveva ancora il 35 per cento».

Invece il governo Gentiloni arrivò a fine legislatura.
«Il renzismo muore non al referendum, come qualcuno pensa. Ma dopo, con le liti sulle alleanze e le alchimie, lo ius soli, il dibattito sull'immigrazione. È dopo giugno 2017, non dopo il referendum del dicembre 2016, che il Pd inizia a crollare».

Qual era il posto di lavoro che aveva negli Usa che aveva praticamente accettato?
«Questo non glielo dico. Le dico solo che dopo Natale chiamo e dico "no grazie, resto in Italia". Fossi andato via, a quest'ora avrei tre anni di anzianità di lontananza dalla politica, tantissimi soldi in più, un altro lavoro e chissà...».

Un buon identildt da «salvatore della patria» o «papa straniero», un uomo nuovo anche per la politica, ripulito dal passato.
«Io il passato lo rivendico, tutto. Ho portato nell'agenda di governo molte delle cose che erano urgenti per l'animo dello scout che ero stato, soprattutto nel terzo settore. E poi, lo sa qual è l'operazione più difficile per chi fa il presidente del Consiglio? L'elezione del presidente della Repubblica. Oh, parliamo di un dossier dove anche i più scafati, vedi Giulio Andreotti, si erano fatti parecchio male. Nel manuale ci sono l'operazione di Ciriaco De Mita per l'elezione di Francesco Cossiga, il miracolo di Walter Veltroni e Massimo D'Alema con l'elezione di Ciampi, anche la gestione del voto che portò al primo Giorgio Napolitano... E poi, senza falsa modestia, i 665 voti con cui il 31 gennaio del 2015 arrivammo all'elezione di Sergio Mattarella».

Opera sua, che però le costò la fine del Patto del Nazareno con Berlusconi. Come andò davvero?
«I nomi in campo sono essenzialmente tre, tutti di altissimo profilo: Giuliano Amato, Sergio Mattarella e più defilato, perché veniva dalla votazione andata male del 2013, Franco Marini. Per quanto la scelta del presidente della Repubblica fosse fuori dal perimetro del Patto del Nazareno, che prevedeva riforma costituzionale e legge elettorale, decido di coinvolgere Berlusconi e glielo dico chiaro e tondo: "Silvio, io gioco pulito con te. E se finiamo su Mattarella, lascerò che a fare per primo il nome sia tu". Come tutte le volte che ci vedevamo a Palazzo Chigi, dove c'era il tavolo rettangolare, lascio che Berlusconi occupi il capotavola. Lui va matto per queste cose, a me invece fregava nulla. Lo conoscevo da anni, ormai: la prima volta l'avevo visto in Prefettura a Firenze nel 2005, dove aveva riparato nell'attesa che riempissero il palazzetto per la manifestazione organizzata da Maurizio Scelti, che si era rivelata un gigantesco flop. Io facevo il presidente della Provincia, stesso palazzo. Mi vuole conoscere, vado giù, mi vede e mi fa: "Ma uno come lei, con la sua immagine, dove va vestito con questo completo marrone?" Anni dopo mi avrebbe detto: "Tu sei davvero l'erede che avrei voluto, sono pronto a darti il 50per cento delle mie realtà". E Luca Lotti, milanista: "Se c'è anche il Milan se ne può parlare..."».

Torniamo al dopo Napolitano. Con Berlusconi qualcosa va storto, a giudicare da come va a finire.
«Un uccellino, di cui non farò il nome, mi dice che Berlusconi subito dopo ha parlato con Massimo D'Alema, per tramite di Nunzia De Girolamo e Francesco Boccia; e che i due, D'Alema e Berlusconi, stanno portando avanti la candidatura di Giuliano Amato. Allora chiamo Guerini e Lotti e chiedo loro, abbastanza imbufalito, di verificare la fondatezza della soffiata parlando con Gianni Letta e Denis Verdini, che erano gli ambasciatori di Berlusconi. Letta e Verdini, sentito Berlusconi, giurano che non è vero, che è una bugia, che la notizia è una bufala. Verdini è quasi indignato dell'insinuazione, si mette a urlare al telefono con Lotti».

Erano sinceri?
«Per quel che ne so, sì, entrambi, sia Letta che Verdini. Berlusconi meno. Senta questa, ha dell'incredibile: ci incontriamo a Palazzo Chigi, arriviamo a una specie di resa dei conti. A un certo punto, Berlusconi confessa di aver chiamato D'Alema e conferma la voce dell'uccellino che mi aveva avvertito. Rispetto alla bugia che mi aveva fatto arrivare tramite Gianni Letta, dice davanti a tutti di essere nel giusto. "Gianni mi aveva chiesto se D'Alema mi aveva chiamato e io avevo risposto di no perché è vero, non mi ha chiamato. Non mi aveva mica chiesto se io avessi chiamato lui, cosa che ho fatto"».

Sembra un film.
«Credo che Silvio si muovesse tanto perché aveva a cuore il tema della grazia a Macello Dell'Utri; che però, gliel'ho detto mille volte, nessun presidente della Repubblica, votato o non votato da Forza Italia, avrebbe mai concesso. Comunque, a quel punto, è convinto di avermi messo spalle al muro. Mi dice: `Non hai neanche il problema di mettere d'accordo la minoranza del tuo partito su Amato perché con D'Alema ci ho già parlato io". La storia sarebbe andata in modo diverso, com'è noto. E toccò al sottoscritto dirlo ad Amato, che reagì con grande signorilità: "Giuliano, non ce la si fa..."».

A quel punto era passato un anno esatto dal suo «Enrico, stai sereno», rivolto a Letta. Ridirebbe quella frase?
«Quando dico quella frase durante la trasmissione di Daria Bignardi, 14 gennaio 2014, non c'era alcuna possibilità che sostituissi Letta a Palazzo Chigi. Il capo dello Stato non voleva, lo sapevo. Per cui, invitavo Enrico a fare le cose, a stare sereno, appunto; la frase, pronunciata a "Le invasioni barbariche" su La7, sarebbe diventata un tormentone ex post, quando ero già a Palazzo Chigi, a causa di Luca e Paolo che l'avevano trasformata in un cult durante il Festival di Sanremo».

Cos'era cambiato nell'arco di così pochi giorni?
«Un sabato, credo proprio il sabato dopo la trasmissione, stavo a casa mia a Pontassieve a giocare alla Playstation con i miei figli. Squilla il telefono, è il Quirinale. Mi invitano a cena per il lunedì, due giorni dopo, al Colle, insieme a Letta. Contemporaneamente qualcosa si stava muovendo all'interno del partito, dove tra i bersaniani c'era chi chiedeva un cambio di passo. Il lunedì mi arriva un'altra chiamata dal Quirinale. L'invito a cena era confermato, la presenza di Letta non più. A cena siamo io e il presidente Napolitano».

Qualche giorno dopo avrebbe giurato da premier, dopo giorni drammatici per il Pd e per Letta. Come sarebbe stato abbandonare Palazzo Chigi nel 2016, dopo il referendum perso?
«Volevo dimettermi prima del voto, magari nella speranza che facendomi da parte il Sì alla riforma potesse rimontare. Comunque sia, la mattina di domenica appena si aprono le urne mi chiama il sondaggista Masia con i primi exit poll. Mi telefona Angela Merkel, a cui anticipo che mi sarei dimesso la sera stessa. Lei mi chiede di non farlo ma la decisione ormai è presa. Partiamo per Roma, io e Agnese, la sera c'è il discorso delle dimissioni, dormiamo nell'appartamento a Palazzo Chigi. La mattina lei si sveglia alle 7 per tornare a Firenze, la macchinetta del caffè è rotta. Scendiamo al piano di sotto, prendiamo il caffè, lei deve lavarsi i denti, le prendo uno spazzolino pulito che ho in un cassetto. Quando esce dal bagno, nel mio ufficio era già arrivato Franceschini...».

Iniziava il «dopo Renzi» dell'Italia. Ma il suo, di «dopo Renzi»?
«Tomo a casa mia convinto che avrei accettato il lavoro negli Usa. Prima che ventiseimila e-mail, la folla alla messa della domenica, gli inviti a rimanere della gente per strada - oltre alla garanzia che si sarebbe votato in primavera e non dopo un anno e mezzo - mi facessero cambiare idea».

Com'è stato il ritorno a casa?
«Erano passati tre anni e cambiate molte cose. I miei figli, per esempio, erano cresciuti di tre anni. Neanche la scrivania su cui lavoravo era più mia, nulla era come l'avevo lasciato prima di diventare presidente del Consiglio. Abituato agli spazi di Palazzo Chigi, mi ritrovavo senza neanche uno spazietto. Sicché gliel'ho detto anche, ai ragazzi: "Oh, ditemi voi dove, ma da qualche parte io devo pur stare"».