"Recalcati, il mio carattere, e il futuro della sinistra". La Lettera di Matteo Renzi
La Lettera di Matteo Renzi al direttore de "La Stampa", Massimo Giannini, 14 febbraio 2021.
Caro Direttore, il Suo giornale mi ha coinvolto in un bel dibattito grazie all'articolo del professor Massimo Recalcati "Perché difendo Matteo Renzi" cui ha replicato con accenti molto critici Sergio Staino. Vorrei ringraziare per l'attenzione provando tuttavia a spostare il dibattito dalla mia persona alla situazione politica.
Non mi sfugge che il punto di partenza di Recalcati sia infatti incentrato sull'ostilità contro di me, come persona prima ancora che come politico: "Quando i giudizi si compattano in modo così conformistico contro qualcuno, uno psicoanalista, abituato a diffidare da ogni forma di pensiero unico, non può non interessarsene" scrive il professore. Né che larga parte delle critiche che Staino formula nascano da delusioni personali, a cominciare dalla triste esperienza di Sergio alla direzione de "L'Unità". Ma la profondità del pensiero di Recalcati chiama in causa non già una sola persona quanto una sfida più ampia. Cito testualmente: "Il livore antirenziano segnala come ripeto da tempo un problema storico del centro-sinistra assai più serio di quello della diagnosi psicopatologica di Renzi.
In gioco è l'identità stessa del Pd, di ereditare autenticamente la propria storia, della sua capacità o incapacità di interpretare il suo tempo. Parliamo di questo allora: come si caratterizza oggi una comunità politica riformista? Qual è l'identità di chi pur condividendo le critiche da noi mosse al Governo uscente non ha avuto il coraggio di essere conseguente? E perché il PD ha rinunciato a giocare un ruolo da protagonista rifugiandosi in un "O Conte o voto", slogan tanto assurdo quanto velleitario? Di questo dobbiamo discutere. E la conclusione della crisi di Governo ci aiuta nel cogliere il disagio del gruppo dirigente della sinistra davanti alle sfide della contemporaneità. Ma anche la difficoltà di rilanciare l'eredità del proprio patrimonio valoriale, concetto molto caro ai lettori di Recalcati. La sinistra di oggi - quella che si riconosce nel neonato fronte Pd, Cinque Stelle, Leu- ha scelto come proprio leader senza il passaggio delle primarie. Ha incoronato Conte non con una consultazione tra i militanti ma definendolo sui media "il più popolare" trasferendo la legittimazione dai gazebo ai sondaggi.
Questa svolta, strutturale, parte dall'assurdo presupposto per il quale al populismo si risponde con la popolarità, mentre invece per quelli come me al populismo si può rispondere solo con la Politica, con la p maiuscola. E poco importa se quel leader - Giuseppe Conte - sia stato il leader che ha firmato i decreti Salvini sull'immigrazione, che ha affermato il sovranismo davanti all'Assemblea Generale dell'Onu, che si è posto in scia di Trump alla Casa Bianca, che si è detto populista davanti ai giovani della scuola di formazione della Lega, che ha equiparato il garantismo al giustizialismo. Non importa ciò che uno ha detto o fatto, secondo questa visione del sondaggismo esasperato: conta essere il più popolare, quello con più like, quello con più followers. E per non parlare di politica si gioca la carta del carattere, dell'antipatia, dell'essere divisivo.
È dunque ovvio che chi come noi ha cercato in questi anni di affrontare molte delle questioni identitarie di una forza riformista, anche compiendo inevitabilmente errori, non può che essere visto come sospetto, "un corsaro, una canaglia, un poco di buono, un figlio bastardo" da chi ha spesso amato discutere dei problemi senza mai risolverli.
È il caso della riforma del lavoro che i DS di Massimo D'Alema ponevano a base della propria identità fin dai congressi del secolo scorso e che soltanto il JobsAct ha infine affrontato. È il caso dei diritti della cui necessità da sempre la sinistra discuteva ma che solo con le Unioni Civili, la riforma del terzo Settore, la legge sul dopo di noi, la legge sullo spreco alimentari, la legge sul caporalato, la legge sulla cooperazione internazionale hanno visto - con il nostro governo - una svolta.
È il caso della parità di genere su cui i democratici da anni discettano ma che solo con il nostro Governo ha visto il primo, e purtroppo al momento unico, esecutivo con una composizione paritetica. Colpisce come il nuovo PD non riesca a profferire una parola credibile sul tema femminile. E che sia l'unico partito - insieme a Leu - che non abbia offerto al Premier incaricato il nome di una donna, facendosi superare non solo da Italia Viva, movimento politico in cui la rappresentanza di genere è cardine statutario, ma anche dalla Lega, da Forza Italia e, in extremis, persino dai Cinque Stelle. Questo accade perché il PD appare più come un puzzle di correnti che non come una vera e propria casa del riformismo. E lo dico con l'amarezza di chi ha lasciato la comunità dalla quale era stato eletto due volte alla guida con il 70% (dei consensi, non dei sondaggi) proprio perché non poteva accettare una deriva populista, l'idea di legarsi mani e piedi al carro del Movimento Cinque Stelle e alla leadership personale dell'ex premier Conte. Contro il quale - sia chiaro - non ho alcun elemento di risentimento personale ma rispetto al quale chi realmente ricorda la nascita del PD di Prodi e Veltroni non può che avvertire una marcata distanza di cultura politica.
Oggi le Istituzioni hanno voltato pagina. Il Governo Draghi nasce per rispondere ad alcune emergenze: i vaccini, la crisi economica, il ruolo dell'Italia in Europa e nel mondo. Facciamo tutti il tifo per questo Governo, nato per rispondere all'appello del Presidente della Repubblica. E tutti noi faremo la nostra parte, in Parlamento, per sostenerlo. Ma il Governo Draghi è anche una occasione per la sinistra. È come se dopo un incidente fosse entrata nel circuito di Formula Uno una Safety Car. Tutte le monoposto in competizione sono costrette a rallentare, a cambiare strategia sul rifornimento, a ripartire in una situazione diversa. La stessa cosa accadrà per i singoli partiti dopo la fine del Governo Istituzionale. Che cosa vorrà fare la sinistra riformista di questo Paese? Quella sinistra che ha sognato con Blair e Obama, che ha festeggiato Biden e Macron, che ricorda Mitterand e Schroeder? Io penso che una storia così grande non possa diventare la sesta stella di un movimento grillino che mi appare in caduta libera.
Mi auguro che, una volta diradata la nebbia del rancore per una crisi dove il PD ha seguito una strategia talmente sottile da sembrare inesistente, in quella comunità politica si provi ad assumersi "la responsabilità di dare al Paese una nuova speranza" per utilizzare le parole di Recalcati. Sono molti gli amministratori, giovani e meno giovani, che potrebbero provarci. Ed essendo io fuori dalla mischia dem il mio "cattivo carattere" non sarà un alibi o un impedimento per chi vorrà davvero provare a cambiare. Se invece si salderà in modo definitivo l'alleanza con Cinque Stelle e Leu e il PD diventerà la sesta stella del grillismo questo aprirà un'autostrada a chi come Italia Viva ambisce a costruire una casa dei riformisti solida e solidale. Il tempo ci dirà chi ha ragione. Quello che è certo è che il coraggio delle proprie idee merita la luce, come scrive ancora Recalcati. E nei due anni che ci attendono da qui alla fine della legislatura potremo chiedere al Governo Draghi di scrivere un Recovery Plan degno e credibile, di cambiare passo sui vaccini, di scommettere sul lavoro e non sui sussidi. Ma non potremo chiedere a nessuno, meno che mai all'Esecutivo, di sostituirsi alla politica. Abbiamo due anni di indubbio interesse politico e culturale: mi auguro che la politica riformista riesca a non sprecarli.