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«C’è l’Europa dei populisti che vuole abbattere tutto e l’Europa dei conservatori che non vuole cambiare nulla. E poi ci siamo noi che diciamo: Europa sì, ma non così». Le parole di Matteo Renzi sono uno spartiacque. Prima c’erano i Monti, i Berlusconi. Con le dovute, grandi differenze, certo. Ma entrambi hanno rappresentato un modo sbagliato di guardare all’Europa.

Il protagonismo sopra le righe di Berlusconi s’accompagnava alla poca credibilità internazionale e all’incapacità di guidare l’economia. Il governo Monti coi suoi tecnici era una sorta di “Signorsì Europa”: debole coi forti, forte coi deboli: rigorosissimo quando si trattò di tartassare gli italiani con nuove imposte, ma incapace di dire un solo ‘no’ alle politiche lacrime e sangue imposte dagli eurocrati dell’Unione Europea.

E così, mentre con Berlusconi lo spread si alzava alle stelle e la nostra credibilità in Europa finiva sotto i piedi, con Monti la credibilità italiana recuperava punti in Europa, ma a finir calpestati erano proprio gli italiani.

L’Italia sprofonda tra Berlusconi, Monti e il disfattismo grillino

È il 4 gennaio 2011 lo spread è a 173 punti, mentre fino al 2008 il differenziale dei titoli italiani non aveva mai superato i 30-40 punti base. Il 9 novembre 2011 arriverà a quota 574: è il record nero.

L’Italia è al collasso. I giornali fanno i paragoni con la grande crisi mondiale del 1929. Un paio di settimane prima, il 23 ottobre a Bruxelles, nella conferenza stampa finale del Consiglio Europeo – lo stesso in cui si mettevano insieme i destini di Grecia e Italia – una giornalista chiede alla cancelliera tedesca Merkel e al presidente francese Sarkozy se fossero stati rassicurati da Berlusconi. I due leader europei si guardano in faccia, sorridono. In sala scoppiano le risate. Ecco qual era la credibilità italiana in Europa: zero. Una risata bastava a seppellirci.

In mezzo c’era stata la drammatica estate del 2011. Italia e Grecia, i paesi fondatori delle grandi civiltà classiche, affondavano insieme. Il rischio della bancarotta non era un fantasma lontano, ma una catastrofe che cominciava ad assumere i contorni della realtà.

Il 16 novembre 2011 il presidente della Repubblica Napolitano incarica Mario Monti di formare un governo tecnico. Il 6 dicembre lo spread cala fino a 368 punti, ma alla fine dell’anno schizzerà di nuovo verso l’alto, toccando quota 528.
Nella memoria corta delle masse ai tempi dei social, che cambiano ogni giorno le verità, ci sembra un tempo immemore, lontano, ma parliamo di una manciata di anni fa.

La cura del professor Monti è quella del chirurgo che opera senza anestesia. Ancora oggi il nostro Paese porta i segni di quella devastazione sociale tra riforma Fornero e manovre che uccidono il tessuto di micro-imprese che è alla base dell’economia nazionale. Come in ogni crisi, arrivano gli avvoltoi, quelli che si cibano della crisi, che crescono con il malumore, che adottano un unico principio: tanto peggio, tanto meglio. Tanto peggio per gli italiani, tanto meglio per loro, i grillini. I 5Stelle vivono già di demagogia, spingono su parole d’odio, campano sul consenso delle fake news che cominciano a invadere la rete. La loro preoccupazione più grande sono le scie chimiche, le loro parole d’ordine sono quelle del populismo più bieco e più elementare: no euro, fuori l’Italia dall’Europa.

Arriviamo al 2013: l’incerto risultato elettorale partorisce un governo incerto, che non riesce a convincere fino in fondo. Si cambia di nuovo e a febbraio 2014 viene votata la fiducia al governo Renzi. E comincia finalmente un’altra storia. Non è una strada agevole tutta in discesa. Bisogna stringere i denti e pedalare, con passione e impegno, con studio e lungimiranza. Ma finalmente prima si esce dal tunnel e poi si ricomincia a crescere, e di quell’Europa, che ieri rideva o commiserava il nostro Paese, oggi siamo di nuovo protagonisti.

Governi Renzi e Gentiloni, cambia la politica europea

I governi Renzi e Gentiloni hanno cambiato radicalmente la politica dell’Italia in Europa. E non soltanto perché hanno lavorato con serietà e spessore istituzionale, rendendo il nostro Paese credibile e autorevole in Europa, ma anche perché, in concreto, hanno dimostrato che l’Europa è, prima di tutto, una necessità e un’opportunità.

Una necessità, perché – è bene non dimenticarlo – mentre oggi i ragazzi di tutta Europa si incontrano e studiano insieme nei progetti Erasmus, alcuni decenni fa ragazzi della stessa età di quelli di oggi, si uccidevano nei mattatoi di ben due guerre mondiali.
Una opportunità economica, culturale, sociale, perché offre ai cittadini europei non solo fondi e aiuti, ma anche la possibilità di costruire progetti insieme, di fare impresa insieme, di studiare insieme, di viaggiare insieme, senza considerarsi estranei e senza badare ai confini o alla valuta o alla lingua.

Meno infrazioni e più flessibilità

C’è, poi, coi governi Renzi e Gentiloni un’inversione di rotta sul come si sta in Europa. “In questi anni – ha spiegato il sottosegretario alle politiche europee Sandro Gozi – abbiamo fatto risparmiare ai contribuenti italiani due miliardi di euro di sanzioni, risparmi che abbiamo potuto impiegare in politiche sociali. Abbiamo dimezzato le infrazioni a carico dell’Italia, da 121 a 62; diminuito drasticamente le frodi all’Unione (- 60%); ridotto al minimo le controversie per aiuti di Stato (da 24 a 4)”.

“Se rispetti le regole, hai anche la credibilità per cambiarle”, aggiunge Gozi. E quella sulla flessibilità è stata una grande battaglia e una conquista del governo Renzi che fa guadagnare all’Italia più di 20 miliardi di euro per finanziare le riforme e rilanciare gli investimenti.
Come scrisse Matteo Renzi sulla sua e-news del 27 marzo 2017: “L’Europa non ci ha dato la flessibilità. Ce la siamo presa combattendo una durissima battaglia politica nel nostro semestre di presidenza, nel 2014. Non ci hanno regalato nulla, abbiamo fatto politica e abbiamo vinto una battaglia”.

Flessibilità non significa aumento del debito pubblico, ma ha voluto e vuole dire che che c’è maggiore spazio di investimento rispetto alle previsioni del fiscal compact che sembrano dettate da burocrati che non vivono su questa terra.
Non solo, ma aver ottenuto maggiore flessibilità e averla usata bene, ha fatto guadagnare maggiore credibilità al governo Renzi e a quello guidato da Gentiloni.
I governo Monti e Letta avevano un deficit al 3%. Il governo Renzi non solo ha incassato la vittoria sulla flessibilità, ma è riuscito a controllare il al 2,3%.

Insomma, Renzi ha dimostrato che si possono tenere in ordine i conti pubblici senza assurde politiche di austerity e senza uccidere la crescita: è ciò che vogliamo dall’Europa, e sappiamo che si può fare.

Europa e politiche sui migranti

Quei paesi che non si fanno carico di accogliere i migranti in arrivo, eludendo così i principi di responsabilità e solidarietà, non avranno i soldi che arrivano dall’Italia all’UE. In sintesi è questa la volontà politica che ha espresso Renzi, perché, appunto, l’Europa ci piace, ma vanno corrette le cose sbagliate.
“Non si può pensare di accogliere i denari che arrivano dall’Italia, e poi non accogliere i problemi che arrivano dalla gestione dell’emigrazione – ha detto Renzi – non si può pensare di stare dentro l’Europa pensando di averne solo vantaggi e diritti, e non doveri”.

Cuore italiano, visione europea

Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann: sono gli estensori e i propugnatori del Manifesto di Ventotene, uno dei documenti fondanti l’Unione Europea. Il cuore d’Europa batte anche e sopratutto italiano, ecco perché per il Partito democratico l’Europa non è il problema, bensì la soluzione.

“Europa sì, ma non così” ha ripetuto Matteo Renzi. Non è solo uno slogan facile da ricordare, è un orizzonte diverso. Il nostro orizzonte sono gli Stati Uniti d’Europa, non la Padania, non i regni sovranisti che sognano grillini, neofascisti e leghisti. Ma nemmeno l’Europa guardata esclusivamente con gli occhi del banchiere o del mercato. La nostra Europa è quella concreta e realizzabile di un continente aperto e vivace, dove la politica e i tecnici lavorano al bene comune, dove i giovani crescono con gli scambi continui degli Erasmus, dove le grandi infrastrutture si progettano insieme, dove c’è una difesa comune e una comune politica estera.

Il futuro si chiama Stati Uniti d’Europa

Il Pd vuole rifondare l’Europa. Dall’altra parte della barricata ci sono quelle forze che considerano l’Europa una minaccia da cui uscire. E il problema non è soltanto il ritorno dei dazi e delle frontiere, non è soltanto il fastidio di cambiare moneta quando si va in un altro paese. È un problema di prospettive. Vogliamo l’Europa dei fili spinati e delle dogane? L’Europa che ha covato gli odi razziali e due guerre mondiali? Davvero per i propri figli e per le prossime generazioni vogliamo questo?

Cosa non va dell’Unione Europea

Cambiare in meglio l’Europa è possibile. Matteo Renzi lo ha ribadito nella convention di gennaio che i parlamentari europei Pd hanno promosso a Milano sul “futuro dell’Europa”.

Innanzitutto c’è un cambio di strategia che si è già innestato ma che deve proseguire con decisione: dalla politica di austerity che il presidente della Commissione europea Barroso ha ispirato e portato avanti per molti anni, occorre passare a politiche di crescita e innovazione.

Il futuro dell’Europa non è nelle regole e nelle regoline dei mille e mille regolamenti comunitari che vanno dalle misure delle vongole pescabili ai decibel del tosaerba…
Non è nei cavilli procedurali che da sempre affascinano i palazzi della burocrazia europea ma irritano tutti gli altri cittadini. Non è neanche nei numerini dello zerovirgolaqualcosa che promuovono o bocciano i bilanci di una nazione. E nemmeno in leader europei pavidi, timorosi di cambiare, incapaci di leggere il presente.

L’Europa è quella cosa che da più di 70 anni (un’eccezione nella storia di sangue e guerre dell’umanità intera) ci dona pace e libertà. Ci garantisce la libertà di lavorare, di viaggiare, di studiare, di conoscere, e perfino di amare e di abitare in paesi vicini al nostro. Non è scontato che sia così. Rammentiamo sempre che fino a ieri c’erano baionette e filo spinato, divieti, dazi, barriere. Non c’era un destino comune, oggi c’è ed è da quello che occorre ripartire.

Il futuro dell’Europa non può che essere in una visione politica concreta e lungimirante al tempo stesso. È nell’elezione diretta da parte dei cittadini europei di una figura istituzionale che sommi il ruolo del presidente della Commissione e di quello del Consiglio europeo. È in una vera politica estera e di difesa comune, perché solo così l’Unione potrà essere all’altezza di una geopolitica internazionale di pace. È nel capitale umano, nei programmi universitari di mobilità, nel servizio civile europeo su cui bisogna investire per far sì che crescano cittadini europei. È nella semplificazione dei bandi comunitari e delle procedure di accesso ai fondi europei, affinché sia favorita la reale fruizione da parte dei cittadini europei dei tanti benefit che pure esistono.

Pd per l’Europa dei cittadini

Il Pd, l’unico polo realmente europeista che c’è in Italia, è “per un’Europa capace di ripensarsi”, come ha detto Renzi.
Berlusconi si è alleato con il populista Salvini, mentre i Cinque Stelle sono impressionanti nella loro assurda visione europea: propongono un impossibile referendum sull’uscita dall’euro, sapendo che una decisione del genere significherebbe il disastro per la nostra economia.

Usciamo dall’euro?

L’Euro e l’Europa sono il futuro. Ci sono regole che non vanno bene e che possono essere cambiate, regole figlie dei governi di centrodestra. C’è troppa burocrazia, e va ridotta e semplificata. Ma se usciamo dall’euro, chi ne pagherà le conseguenze saranno in particolare i giovani e i pensionati, coloro che hanno meno potere d’acquisto. Se imponiamo dazi protezionistici, il risultato sarà la perdita del posto di lavoro per decine di migliaia di lavoratori delle imprese dell’export. Se ci chiudiamo all’Europa, non sarà solo l’Europa a perderci, saremo noi per primi.