Renzi: "Draghi può stare a Chigi o al Colle ma non in panchina"

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Intervista di Fabio Martini, "la Stampa", 21 gennaio 2022.  

Anche chi lo detesta, lo sa: nel "fare" Presidenti (Mattarella, Draghi, se stesso), Matteo Renzi finora ha avuto un certo "tocco" e per questo il suo allarme a 78 ore dalla prima votazione non va sottovalutato: «Attenzione. Se si porta Draghi come candidato allo scrutinio segreto, lo si elegge, anche perché esporlo a una bocciatura dell'Aula significherebbe perderlo sia per il Colle che per il governo. E l'Italia una cosa non se la può permettere: rimettere Mario Draghi in panchina».

Renzi, senza la sua azione, forse Mario Draghi sarebbe ancora un pensionato ma non pensa che con un eccesso di superficialità, anche sua, si rischia di perdere una risorsa potente per il Paese?
«Diciamo che, conoscendo Mario, sono sicuro che non avrebbe fatto il pensionato di lusso ma sarebbe probabilmente un top advisor per qualche istituto finanziario internazionale. Battute a parte, le rispondo che ha ragione. Noi possiamo schierare Draghi come centravanti a Palazzo Chigi o portiere al Quirinale, ma l'unica cosa sicura è che non possiamo perderlo».

Il "titolo" Draghi non ha mai rischiato di essere sospeso per eccesso di ribasso, ma fatica a salire...
«Non mi pare né in discesa, né in salita. Draghi è Draghi, punto. Metà degli italiani sogna di vederlo per sette anni al Colle. Metà degli italiani spera di non perderlo a Palazzo Chigi. La quasi totalità riconosce che la sua presenza in politica è un valore aggiunto per le istituzioni».

L'uscita da Palazzo Chigi sarà comunque una perdita...
«Lui ha chiarito di essere a disposizione per qualsiasi ruolo il Parlamento gli chieda di esercitare e quella sua frase sul "nonno a servizio delle istituzioni" è stata oggetto di polemiche ma è in realtà una generosa disponibilità».

E tuttavia dalle difficoltà denunciate anche da Conte emerge una dato molto serio: a voto segreto Draghi rischia di non essere eletto...
«La prego, non scherziamo. Se si porta Draghi come candidato, lo si elegge, anche perché una bocciatura significherebbe perderlo. Ma da settimane dico che Draghi per sette anni al Quirinale sta in piedi se c'è un'operazione politica di sostegno. Come del resto politica è stata l'operazione che ha mandato a casa Conte e Casalino e svoltare con l'esecutivo Draghi ».

Ci si continua a girare attorno: Draghi può andare al Quirinale soltanto se si chiude, e bene, sul governo. Si parla di Colao e Cartabia, ma i veri nomi sono coperti?
«Io non credo che ci siano solo quei due candidati, pur pensando tutto il bene possibile di Vittorio e di Marta, due ottime persone e due rilevanti personalità. Penso però che se c'è uno schema di gioco pronto per il dopo, allora l'operazione Draghi è fattibile. Nessuno accetta di perdere un premier così stimato senza avere certezze sul futuro».

Berlusconi, nel prendere atto del fallimento, farà saltare il lavoro dei maestri pontieri come lei?
«Le confesso che un po' mi dispiace che anche stavolta Berlusconi abbia scelto di non dialogare (anche) con me sulla vicenda Quirinale. La caccia al singolo parlamentare è stata ridicola e indegna di una storia di oggettivo rilievo quale quella del Cavaliere».

Ma davvero Berlusconi non l'ha sondata?
«No, ma glielo avrei detto in faccia, senza riguardo per gli yesman che hanno esposto il Cavaliere a questa triste sceneggiata. Ho condannato la caccia al responsabile quando un anno fa la faceva Conte con l'aiuto della sinistra, la condanno oggi se la fa Berlusconi con l'aiuto di Sgarbi. Detto questo, non so che cosa abbia in testa. Spero che pensi alle istituzioni, non alle sue vendette. Ma in ogni caso servono 505 voti: decide il Parlamento in seduta comune, non Silvio Berlusconi».

A prescindere da Berlusconi, per lei due ex presidenti di assemblea come Marcello Pera e Pierferdinando Casini avrebbero entrambi le caratteristiche giuste?
«Sì. Quasi tutti gli ex presidenti di assemblea sono da sempre quirinabili, specie se hanno svolto il compito con rigore istituzionale e con apprezzamento complessivo. Napolitano, Scalfaro, Cossiga, Pertini e molti altri erano stati alla guida di Camera o Senato».

Quasi tutti? Le pare che negli ultimi anni qualche presidente di Assemblea non sia stato all'altezza del compito al quale erano stati chiamati?
«Se parliamo di presidenti di Camere che nella loro qualità di ex avrebbero potuto ambire alla presidenza della Repubblica, mi faccia esprimere qualche riserva al riguardo nei confronti, per esempio, di Irene Pivetti. O di Pietro Grasso».

In questa occasione Conte avrebbe voluto fare il Renzi?
«Conte non vuole fare mai come me e fa bene perché siamo molto diversi. Lui è bravo con gli hashtag e le dirette Facebook, io faccio una cosa diversa, si chiama politica. Sono due mestieri differenti. A lui piacciono i sondaggi, a me piacciono i progetti».

E invece il Renzi è diventato Salvini: il boccino lo ha in mano lui?
«Ha il boccino. Mi auguro che lo giochi bene. E me lo auguro per il Paese, prima che per lui. Se replica la frittata di Bersani si fa male lui, si fa male il centrodestra. E fin qui potremmo resistere. Ma soprattutto si fa male il Paese. Che la saggezza lo assista».

"Meno tre" alla prima chiama: dietro lo stallo in superficie, qualche traccia porta verso la soluzione?
«Tutto fermo, quasi immobile. Tutti parlano con tutti, ma gli incontri veri sono quelli che non vengono raccontati alle agenzie, ovviamente: quelli che fanno sapere la propria agenda sono quelli che alla stretta finale non contano e i candidati stanno giustamente nell'ombra, al riparo da visibilità eccessive. Finché il Presidente della Repubblica è eletto da mille delegati sarà sempre così: le campagne elettorali all'americana servono quando c'è l'elezione diretta, non per i grandi elettori».

Almeno lei si scopra: qual è il vero schema di gioco che può sbloccare l'impasse?
«Io sono orgoglioso dell'operazione Mattarella di sette anni fa e sono orgoglioso dell'operazione Draghi di un anno fa. Ma qui la partita è in mano al centro destra: hanno un nome che può unire anche il centrosinistra o parte di esso? Ma capisco Salvini e Meloni: è una partita difficile: se sbagliano rischiano la "sindrome Bersani" del 2013. Lui perse le elezioni ma la sua carriera politica non finì con quella sconfitta o come la chiama lui "non vittoria". Lui si bruciò il futuro, gestendo come un dilettante la partita del Quirinale. Penso che i leader della destra sappiano che si giocano molto in caso di non elezione: sono un loro avversario ma riconosco loro buona fede e intelligenza. Pertanto credo che entro il weekend dovranno decidere che partita giocare».

Complicato anche per lei confondere come test nazionale la suppletiva romana, dove il candidato di Italia Viva ha sfiorato il 13 per cento. Al netto della propaganda che segnale è?
«Se c'è uno schieramento di destra sovranista e uno di sinistra con un candidato massimalista, Italia Viva ha i sondaggi al 2% e però porta a casa il 13%. È il segnale che alle prossime elezioni quest'area centrale farà molto parlare di sé. Specie pensando che i grillini sono finiti e l'imbarazzo garantista sulla vicenda di Beppe Grillo lo dimostra. Tutte le volte che mettiamo il simbolo prendiamo una percentuale più alta rispetto ai sondaggi: qualcosa vorrà pur dire, no?».