Oggi è il caos. Nessuno sa che cosa stia succedendo davvero. E nessuno sa che cosa succederà. Sono cresciuto col mito dei politici britannici, da Churchill a Tony Blair. Oggi questa confusione mi sembra peggiore degli intrighi della politica italiana.
Guadagnato non tanto, ma un po’ di tempo, Londra non ha ancora reso chiaro a se stessa prima ancora che all’Europa non solo cosa realmente voglia, ma in capo a chi sia la possibile soluzione di questo rompicapo. Il governo? Il Parlamento? L’Irlanda? I partiti della maggioranza? Il popolo britannico? La Commissione? Il Consiglio Europeo? Chi?
In mancanza della necessaria chiarezza – che non difetta solo alla maggioranza, ma purtroppo anche a una opposizione altrettanto indecisa a tutto e spesso imperscrutabile – il confronto tra UK e UE può portare ad un esito positivo soltanto a tre condizioni:
– che a farsi carico della responsabilità negoziale, del perimetro della Brexit e della fisionomia del nuovo rapporto tra Londra e Bruxelles sia il Parlamento britannico. Passando dall’antagonismo del no al protagonismo del si. Inducendo Downing Street verso un nuovo accordo di cui Theresa May non sia più la promotrice ma la broker. Basta ipocrisie e rimpallo di colpe. Finora il Parlamento si è trincerato dietro quello che un poeta italiano, Eugenio Montale, definiva “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E’ tempo che Westminster prenda consapevolmente la guida di questo processo e porti la Brexit verso un esito positivo per tutti, per i cittadini britannici che l’hanno voluta e per gli europei che ne pagheranno le conseguenze. Si tratta di accountability e, se posso, di decency.
– che, se fallisse il Parlamento, se fallisse il tentativo di evitare di finire sonnambuli verso uno sciagurato No Deal, il peggiore dei risultati possibili, la più netta contraddizione del senso del voto del giugno 2016, tornasse allora la parola al popolo in un referendum E’ la via maestra della democrazia: When in trouble, go vote.
– che Regno Unito ed Europa si impegnino a cessare da subito la dinamica di scapegoating che ha segnato i negoziati in tutti questi lunghi mesi. Era chiaro dall’inizio che la sapienza contrattuale di Bruxelles non avrebbe ceduto di un centimetro rispetto alla confusa volontà proveniente dal voto. Vogliamo uscire, ha detto il popolo. OK, ma come? E’ sul come che sono cominciati (e non sono ancora finiti) i guai. Guai grossi. Che non riguardano solo il backstop o la partecipazione o meno alle prossime elezioni europee di maggio. Che si preferisca uscire o restare, we’re all in this together, britannici ed europei. Dobbiamo saperlo.
Non è una invocazione retorica, un plea: è una constatazione fattuale. Se ne esce solo con una autentica, chiara volontà comune di trovare una soluzione, rapida e praticabile.
Non ho titolo da senatore italiano per dare consigli alla premier britannica, ne’ alla Commissione con la quale ho avuto in passato non pochi scontri. Ho a cuore chiaramente la sorte delle migliaia di italiani che vivono e lavorano in Inghilterra e che hanno bisogno di un quadro chiaro e certo di diritti per il futuro loro e delle loro famiglie. Quando sono stato primo ministro, tuttavia, e su temi non meno spinosi della Brexit – penso al tema migratorio – abbiamo saputo coniugare la dovuta fermezza di fronte alle troppe spalle voltate dei nostri partner con la necessaria flessibilità. Che significa mutua volontà di affrontare e risolvere un problema tuttora aperto. Dopo l’ennesimo naufragio nelle acque del Mediterraneo abbiamo fatto chiaro ai nostri partner che non si trattava di un dramma italiano, ma di una questione che riguarda tutta l’Europa. All’inizio in molti fecero finta di niente, oggi è il tema numero uno nell’agenda dell’Unione.
Se posso, però, da cittadino italiano e fieramente europeo, a entrambe le parti dico: non c’è più tempo per diffidenze e tit-for-tat. Il Regno Unito e la UE sanno che l’interesse dei cittadini britannici ed europei verrà meglio servito da ragionevolezza e da una applicazione intelligente e sottile delle norme. Non è una battaglia tra ragione e torto, ma tra ragione e ragione. Ogni passione spenta, tocca ora al buonsenso e alla saggezza di Parlamento e leadership europea di portare a compimento il cammino – per me sbagliato – di una separazione consensuale. Gli avvocati abbiano chiaro che è nell’interesse dei loro difesi trovare un rapido compromesso rispettoso e sensato. Come dice il bardo, now don’t go wasting my precious time, get your act together we could be just fine.
Porto sulla mia pelle le cicatrici di un referendum: ho perso il mio lavoro per un altro referendum nello stesso anno della Brexit. Ma chi dice bugie può vincere un referendum ma poi perde la sfida con la realtà. Avevano detto che sarebbe stato tutto semplice, a Londra come a Roma. Abbiamo visto che non è così. E il conto lo paga la povera gente che subirà le conseguenze economiche di questa scelta. Sia allora il popolo a porre fine, con un nuovo voto, alla wasteland di questi mille giorni di Brexit senza Brexit.